“Il Corridore” (M. Olmo) #ilraccontodellibro

“Non importa quello che si vede, quello che non si vede. Quello che resta e quello che passa. Importa come si è vissuto. L’essere parte di.” (M. Olmo)

 

Incipit.

Ho avuto il piacere di conoscere Marco Olmo al Trail dei Molini, il 25 Febbraio 2024. Quando sono arrivato, con il libro in mano, aveva già capito.

Pensavo fosse “burbero” così come si sente dire.

E invece ho percepito subito che si tratta solo di “scorza”; di qualcosa che serve a proteggersi da un mondo che è cambiato troppo rispetto a quanto lui avrebbe voluto e sia stato in grado di capirlo (a cena, dai suoi racconti, ho “sentito” questo, poi).

Mi ha stretto la mano.

Mi ha sorriso.

“Posso firmartelo se vuoi”, prima che glielo chiedessi.

Grazie Marco. 

Grazie infinite per ciò che hai dato a questo sport. (Ripensare a quei momenti mi emoziona ancora.)

 

Il racconto del libro. 

Leggere questo libro è come entrare in una stanza vuota di una casa di tanto tempo fa. Una stanza con dentro l’essenziale del “ciò che è stato”: Con alle pareti i ricordi di una vita: foto, medaglie, trofei. Istantanee di un uomo che corre. Tra i monti innevati e le distese infinite di sabbia del deserto. Un uomo segnato dal tempo di una vita durissima a cui ha saputo dare un significato straordinario, riempiendola di “puntini”. Lui, Marco Olmo, “Il Corridore”, le chiama così le sue vittorie.  “Un attimo di gloria futile e passeggero, mentre tutto il resto è amarezza, sconfitta”.

Marco sembra parlarci proprio da quella stanza, in cui passa a rassegna tutto ciò che è stato.Guarda “dentro” e ci regala ciò che resta di mille imprese, mentre, affacciato alla finestra, sembra ripassare, ammirandolo con nostalgia, magari, lo scorrere della sua vita. Donandocelo.

E’ buffo come il libro di una leggenda vivente del Trail Running (italiano e mondiale) si apra con una sorta di “incipit” che sembra voglia raccontare un’altra storia ma che invece non lo è: “Anatomia di un perdete”. 

E’ così che comincia la sua storia.

Così, comincia la storia incredibile e straordinaria di Marco Olmo, da Robilante, classe 1948.

Così, in qualche modo, si vede(va) lui, attraverso l’immagine riflessa in una finestra con vista sul passato che sfuma nel presente. O di un finestrino o dello specchio di una camera.

C’è un corpo, in quel riflesso. Quello di chi è segnato da tutto ciò che è stato e che ha fatto nella vita e nello sport. Un corpo che “non dimentica” nulla. E che forse in quello specchio racconta una storia nella storia. Un corpo inadeguato, inadatto, per struttura (“io non sono mai stato un uomo forte”), conformazione, dinamica del movimento a fare grandi imprese. Il corpo che sarebbe dovuto essere quello di un “perdente”…e invece. 

Invece no. (Ma lui, questo, non lo dice)

Da quella finestra Marco passa a rassegna una vita di altri tempi; quella difficilissima di chi nasce nella povertà in un paesino di poche anime che fa impressione: “dall’orizzonte stretto, sembra impossibile allargare la visuale, prendere il respiro e sognare altro. Pensare di andare lontano”. E invece…

Una vita fatta di cose essenziali, niente di più. 

Così come tutto il racconto. Dall’infanzia trascorsa “con un tetto sulla testa, due mucche e un pezzo di terra”, al primo lavoro da camionista, prima di mettere definitivamente le radici nella stretta valle dopo l’assunzione alla Buzzi Unicem che campeggia laggiù, come un mostro che si è mangiato una valle, trasformandone il territorio e la vita. Ma non per questo non meritevole di gratitudine, per lo stipendio, la dignità e le promesse mantenute ad una comunità con un tozzo di pane sulla tavola e poco altro.

Epopea di una stagione che è di un uomo ma in realtà di un Paese intero: campagne che piano piano si svuotano per riempire le fabbriche, lasciando fuori quel castagno, simbolo di una vita che non c’è più, con la sua idea di libertà: la chiama “civiltà del castagno”, lui.

Marco ci trasmette la storia di un paese come diapositive successive ed è qualcosa di suggestivo.

Ci parla dei valori a cui ha imparato a credere e a cui non ha più smesso di credere. 

Dal rispetto per una natura che fa sempre più fatica a “resistere” all’uomo; a quei sentieri che raccontano una storia di trasformazione ancora in atto e che lui “calpesta” ogni mattina solo con i suoi passi dentro boschi invece calpestati in altri modi, “sempre più sporchi”, “sempre più chiusi”. “Ogni cosa ha bisogno di cura” dice. E sembra che di cura ormai non ce ne sia più, da tempo.

Al rispetto per gli animali “esseri viventi e non pasto”; con la sua scelta vegetariana prima dettata da ragioni salutistiche e poi diventata letteralmente filosofia di vita.

All’amore e al rispetto per Renata, compagna di una vita: una presenza costante, puntuale, precisa, meticolosa. Che c’è anche quando non la vedi; anche quando non ne senti parlare in un libro che, a modo suo, di amore ne contiene tantissimo. In questa e mille altre forme.

All’amore per la corsa.

Marco ci racconta delle sue prime gare fatte mentre “ero già vecchio per iniziare”, con il suo arrivare “penultimo” e davanti “due scelte possibili: nascondermi o continuare”. Ma, come lui rimarca, non c’era scelta: “i perdenti hanno la strada segnata…possono solo proseguire. Cocciutamente, ostinatamente”.

In fondo non è mai troppo tardi. Né per perdere, né per vincere.Una strada che lo porterà, seguendo il filo pratico dei suoi calcoli, a fare “4 giri del mondo” sulle sue gambe. Anzi, di più.

Come in tutte le storie straordinarie, anche questa prende le mosse da un evento che cambia le sorti dell’esistenza. 

E della storia, appunto.

Un “banale” ma durissimo incidente in moto trasforma il suo sogno di correre una Parigi-Dakar, nel sogno di attraversarlo a piedi, il deserto.

E’ un’idea che si fa largo. Come un tarlo che resta lì, che “lavora dentro piano piano”, mentre fuori, Marco, uscito dall’ospedale, migliora sempre di più, si impone in qualche gara sempre più lunga, sempre più ripida; vince nello scialpinismo. Diventa forte. 

E’ forte, il “perdente”, intorno a casa.

Ma eccolo, il deserto. Lontano ma sempre più vicino.Il deserto come un appuntamento solo rimandato che arriva col suo inconfondibile “soffio” con uno squillo del telefono. 

E’ il febbraio del 1996 e, come in tutte le favole, stravolge tutto.

La Marathon des Sables bussa alla porta di Marco. 

Per lui è “una di quelle gare che segnano il confine tra il vero corridore di ultratrail e un appassionato del genere”.”Impossibile dire no”. Già.

Contro ogni pronostico Marco arriva terzo alla sua prima partecipazione, ma quello che più conta è che quella che doveva essere l’esperienza, il sogno di una vita (appena realizzato) diventa la prima di una serie ininterrotta. Ben 16 Marathon des Sables fino alla stesura del libro.Il deserto diventa la casa di Marco. la sua seconda casa, che per un montanaro fa  specie anche solo a pensarlo.

Non “casa di vita, ma casa di corsa”.

La sua carriera di “corridore” prende il volo. 

Marco racconta nel libro le tappe più importanti. 

Dalla partecipazione e le vittorie alla Desert Cup, alla Badwater 100 nella Valle della Morte, fino alla consacrazione definitiva avvenuta con le inattese vittorie (due, di seguito), all’Ultra Trail du Mont Blanc  (UTMB). 

Sono avvincenti questi racconti e sembra davvero di essere lì con lui, mentre vive la fatica di una esperienza che rappresenta il sogno di tutti i trail runner.

Marco si laurea Campione del Mondo di Trail a 58 anni, prima di bissare l’anno successivo. 

Incredibile, a quasi 60 anni e con quel corpo da “perdente”.

E viene da sorridere, mentre si guarda intorno e sulla linea di partenza ci sono tutti ragazzoni che vengono da tutto il mondo con il loro seguito di “tutto ciò che serve”, dopo aver fatto palestra su palestra e seguito “tabelle a cui io non credo”. “Io”, dice Marco, “credo solo al mio corpo. Che ho imparato a conoscere alla perfezione e che so dove mi potrà portare. Lontano.”

Marco scopre la vita attraverso la corsa e ci racconta il senso della vita attraverso i suoi pensieri, le sue uscite per sentieri di un paio d’ore, prima che il mondo si svegli; le sue gare, tantissime da “perdente”.

Alla vita fatta di tutto e solo ciò che è essenziale, attraverso le mille difficoltà che le gare, come metafora di vita, ci hanno messo di fronte e costretti a superare. In qualche modo.

“Le situazioni difficili ti portano a concentrare tutte le energie in un solo punto, su una sola questione. Non inciampare. Non cadere. Mantenere l’equilibrio”.”E questo non è forse come la vita?” Si chiede e ci chiede, Marco “il corridore”.

Marco si scopre “modello” da imitare, così per caso. Si, anche questo per caso. Come un ragazzo che passa e ti urla che per lui meriteresti “la medaglia alle olimpiadi al posto di quelli lì” e che ti considera di esempio. Ed è così che quando riprendi a correre, da quel momento in poi, ti senti un po’ frastornato. “Con un peso sullo stomaco che non sapevo se chiamare orgoglio o paura”.

Sembra di vederlo, Marco, mentre, seduto sul divano di casa sua, ci racconta l’ultimo capitolo di questa storia. 

Quello ancora da scrivere.

Quello trascorso “dopo” ogni sua corsa, ancora e ancora…ancora oggi. 

Di una quotidianità adesso fatta di incontri con i ragazzi di decine di società sportive, del CAI, delle biblioteche, delle scuole come una cosa che non smetterà mai di stupirlo. E di piacergli.

E’ la soddisfazione grande di chi ha saputo raccontare la storia semplice e avvincente di un “perdente” 

Di un “perdente” che ce l’ha fatta. 

“A non tirarsi indietro. Mai.”

Quella di Marco Olmo, “Il Corridore”.

“Nella corsa gli ultimi non sono certo meno degni dei primi. Anzi, per certi aspetti lo sono anche di più. Arrivano fino in fondo correndo molte ore in più di quelli che sono in testa. Arrivano fino in fondo anche se sanno fin dall’inizio che non avranno mai una medaglia al collo” (M. Olmo)

 

Vincenzo Iannotta

Team Run For Wellness

 

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